Il vino rappresenta una delle bevande che maggiormente hanno caratterizzato la storia dell’umanità.
LA STORIA DEL VINO
La nascita del vino è direttamente riconducibile alla storia stessa dell’umanità: ogni vicenda politica e di potere ha avuto le proprie storie di vino, più o meno legate agli eventi stessi che hanno segnato il corso dei secoli.
Il nostro scopo è quello di riassumere le tappe salienti dello sviluppo di questa straordinaria bevanda , nella certezza che la conoscenza, seppure superficiale, di questo cammino ci permetta di apprezzare e capire meglio il vino dei giorni nostri.
La testimonianza più antica dei vini campani risale al VI secolo a.C. Al tempo degli etruschi esisteva una particolare teoria sulla coltivazione delle viti: si usava la vite “maritata” a piante ad alto fusto, potata ed educata come una liana. Successivamente la scuola greca ha introdotto sistemi che allevano che la vite come arbusto sostenuto da un tutore; esempi del primo tipo sono a Caserta l’Asprino, allevato altissimo consociato a pioppi o gelsi oppure i vecchi testucchi di Taurasi, mentre esempi della seconda forma di allevamento sono gli alberelli pugliesi o la moderna spalliera. Nelle colonie campane della Magna Grecia il vino occupò un posto preminente nella vita quotidiana. Ciò è testimoniato dalla “Tomba del tuffatore” che si trova a Paestum, risalente al V secolo a.C. Rappresenta l’unico esempio di pittura figurata greca dove, su quattro lastre, sono raffigurate alcune scene di un banchetto, e sono mostrati gli effetti che il vino provoca sui commensali.
In epoca romana, la vite fu “addomesticata” con l’utilizzo di pali e ci fu il ricorso a potature annuali. In questo modo la viticoltura campana raggiunse il massimo splendore. Proprio a Pompei e ad Ercolano sono state trovate raffigurazioni, sculture e oggetti dell’artigianato che testimoniano il ruolo fondamentale che la Campania ha assunto nello sviluppo e nella diffusione della “cultura del vino”. Il vino veniva conservato in anfore di terracotta, i “dolia”, chiuse da “pittacium” su cui si annotava la zona di origine dell’uva e l’anno della vendemmia. La mescita dei vini veniva fatta da “haustores”, utilizzando vasellame molto raffinato. La “Vitis hellenica”, la “Vitis apiana, l’ “Aminea gemina” sono i progenitori dell’Aglianico, del Fiano e del Greco. Il nome della Falanghina ha origine dal termine romano falanghe, che era il palo al quale veniva appoggiato il vitigno, nel sistema detto “puteolano”.
GLI SVILUPPI IN ITALIA E IN CAMPANIA
L’industrializzazione ha modificato, negli ultimi decenni, il gustoso mondo del vino. Avvalendosi di tecniche di refrigerazione dei vasi vinari, paesi caldi come la California e l’Australia hanno cominciato a produrre vini straordinari di eccellenti qualità.
L’America ha avuto la capacità di imparare in fretta e raggiungere ottimi risultati in poco tempo. L’Italia ha sempre creduto di saper fare il vino meglio degli altri. E’ indubbio che il nostro paese è un paese strordinarimante vocato alla viticoltura, tanto che i Greci la chiamavano Enotria cioè terra del vino. Purtroppo però questa vocazione del territorio non è stata mai sfruttata a pieno. Dal Medioevo a oggi in molte zone d’Italia è cambiato ben poco nel modo di allevare viti e fare vino. Nelle nostre diete vige ancora la cultura del “vino del contadino” come massima lussuria enologica, finendo per scambiare per buon vino prodotti ossidati e molto spesso maleodoranti.
Da alcuni anni per fortuna qualcosa sta cambiando. Si sta dando sempre più importanza al fattore qualità, sulla bassa resa per ettaro e sull’applicazione di criteri scientifici in fase di vinificazione. Il potenziale dell’Italia vitivinicola è immenso. D’altro canto i consumatori si dividono ancora in “bevitori” e “degustatori”, i primi in maggioranza affezionati al vino della casa e un po’ incuranti della qualità, i secondi più consapevoli del fatto che il vino è un piacere frutto della raffinatezza della nostre terre. La Regione Campania era denominata dai Romani Campaniafelix, riferendosi alle di sicuro alle bellezze paesaggistiche e ai vini che alla loro epoca erano assai apprezzati. I Romani consideravano la Campania zona prediletta per costruirvi le ville dove trascorrere le vacanze estive e i momenti piacevoli dove organizzare festini allietati appunto dai celebri vini locali. Questi nettari furono cantati, lodati da poeti come Orazio e Virgilio e descritti da naturalisti come Plinio il Vecchio. Oggi un certo degrado ambientale ed un mutamento nelle tendenze culturali hanno ridotto la produzione campana di vini a livelli modesti rispetto alla produzione Nazionale. I vini di qualità, a DOCG o a DOC, rappresentano una piccola parte del prodotto Campano il quale è complessivamente inferiore al consumo tanto è vero che si acquista più vino di altre Regioni di quanto ne esporti di locale. L’evoluzione dei gusti e delle tendenze di mercato hanno generato una preferenza per i vini bianchi asciutti e rossi perché più ricchi di profumi e più delicati che forti. I vini campani attualmente più apprezzati e conosciuti sui mercati esterni sono quelli prodotti in Irpinia dove, grazie alle moderne tecniche di coltura e di vinificazione si producono vini altamente tipicizzati sotto il profilo organolettico e di alto livello qualitativo.
La Campania possiede vigneti storici prevalentemente nell’Avellinese: l’Aglianico da cui il vino Taurasi, il Fiano e il Greco di Tufo. L’Aglianico è la base di diversi vini rossi a DOC. Il Fiano riconducibile alla Vitis apiana è uno dei più distinti vitigni italiani a frutto bianco. Il Greco di Tufo discende da antiche varietà greche: le sue uve bianche danno vini elegantissimi soprattutto nell’Avellinese. Altre antiche varietà sono il Falanghina e l’Asprinio. Fra i rossi ha ancora un ruolo importante il Piedirosso o Palombina. Le colline avellinesi dell’Irpinia, di origine vulcanica, rappresentano una zona enologicamente assai vocata e apprezzata che si è rivelata tale in tempi abbastanza recenti sia per la già descritta evoluzione del gusto che per le tecniche enologiche adottate per produrre il Fiano, il Greco di Tufo, l’Aglianico e altri. Le DOC della zona sono Fiano di Avellino e Greco di Tufo (la valutazione per la DOCG è stata approvata). La DOCG del Taurasi ottenuto dal migliore vitigno dell’antichità la Vitis Hellenica. Il nome deriva dalla cittadina omonima dell’antica Taurasia e il vino è prodotto in un area ad alta tradizione vitivinicola. Il Taurasi ha dalle caratteristiche superiori ed è uno dei pochissimi vini italiani, meritevoli di lunghissimo invecchiamento da uve Aglianico.
Il Cilento, a sud-est di Salerno, dalla pianura alluvionale del Sele si protende verso il promontorio di basse montagne le cui pendici rocciose, ostiche alle coltivazioni, sono state sfidate da vigneti che sfruttano terreni calcarei e clima mite. I vigneti sono composti da vitigni Aglianico, Piedirosso e Primitivo che danno vini rossi robusti e rosati generosi. La DOC Cilento applicabile a questi vini si riferisce anche ad un bianco leggero ricavato da uve Fiano, Trebbiano, Greco e Malvasia. In zona un’altra DOC è Castel San Lorenzo.
PROTOCOLLO PER UNA VINIFICAZIONE DI QUALITA’
Il vino è materia vivente, in progressiva evoluzione, che come tutte le materie viventi, nasce, cresce, matura e muore. Dalla natura della sua composizione e dalla sua “educazione” durante la crescita, sarà più o meno buono, più o meno saporito, e il suo ciclo vitale sarà più o meno lungo; sta a noi valutarlo e trattarlo di conseguenza, godendone tutte le gioie ed i sapori nel corso della sua vita. Se un vino, per timore dei maltrattamenti che subisce nella catena della distribuzione industriale, viene inertizzato, disinfettato, evirato, in un solo termine “ucciso”, con il pretesto di renderlo stabile, ebbene, perdendo la sua prima attribuzione di materia vivente, quel liquido non sarà più vino, ma un prodotto inerte, omologato, insipido e morto, come lo sono tutti i prodotti industriali, sempre uguali a se stessi, indipendentemente dai luoghi e dai tempi di produzione o dagli stabilimenti che lo producono. Gradiremmo salvaguardare tecniche e prodotti che definiremmo “rurali”, garanzia di originalità e tipicità. L’industriale ed il commerciale non si addicono al vino, come ad ogni altro alimento artigianale; una tale definizione è una contraddizione in termini, che definisce perfettamente il prodotto-simbolo di massima diffusione nell’era della globalizzazione: la gassosa scura, il cui rosso totem impera in tutti i fast food e pubs vari. Giorgio Grai – enologo: il vino non si “fa” ma lo si crea…..l’enologo è lo stilista che con la sua conoscenza e con la materia prima messa a disposizione dal terroir, ottiene la massima espressione qualitativa possibile in base agli obiettivi di mercato. E qui non ci siamo….la massima espressione enologica di quella terra è quella che è, e basta, non quella richiesta dal mercato. Si produce al meglio il vino espresso da quella situazione pedoclimatica e lo si propone…. Il mercato ne deve solo prendere atto, accettandolo o rifiutandolo. Se quella zona non da un prodotto che il mercato richiede (come oggi si asserisce) che facciamo? lo rendiamo simile a quanto richiesto con manipolazioni e correzioni che alla fine avranno dato un prodotto standard e omologato, anche se corretto e di buon livello qualitativo? Certo, vino non cattivo, ma senza identità.
Oggi, attraverso tecniche ormai standardizzate, che non rispettano il terroir, si dirada, si abbassano le produzioni, si concentra, si fermenta con gli stessi lieviti, si appiattisce in barrique con sapore di legno i soliti merlot e cabernet, ed ecco il grande vino internazionale.
Ancora Grai: oggi si producono vini da vigne con rese forzatamente inferiori all’equilibrio vegetativo della pianta, ma la produttività del ceppo dipende dalla varietà, dalla zona, dal portinnesto, dal clima ecc.; la sensibilità del viticoltore giudicherà l’esatto equilibrio vegetativo, senza forzature in basso o in alto. Oggi le ricerche scientifiche ci permettono di conoscere e mettere in pratica le giuste tecniche: alcuni tecnici di buona estrazione sanno gestire al meglio queste risorse al fine di esaltare le qualità insite nell’uva di origine (se ci sono!); altri le usano per rinforzare e concentrare e dare al vino tutti gli eccessi che oggi caratterizzano il gran vino richiesto dal mercato. Si tende verso l’eccesso invece che verso l’equilibrio. D’Attoma – enologo: penso bene dei vini concentrati perché c’è una fascia di consumatori che li apprezza, ma bisogna stare attenti perchè quando si supera quell’eccesso di pienezza i vini diventano pesanti e difficili da bere. Io lavoro in aziende che producono questi vini per concentrazione, da uve con basse rese e affinati a lungo in barriques, che vengono pensati per un pubblico qualificato…..
In merito Grai è molto critico: la barrique è uno strumento di cantina come qualunque altro. Sono poi diventati strumenti che suggeriscono grande nobiltà. In Borgogna (pinots) vini piuttosto magri guadagnavano con l’estrazione dei tannini e degli altri componenti del legno; nel Bordolese (merlot e cabernet) invece, vini ricchi e tannici nelle piccole botti acceleravano le precipitazioni e l’alto scambio termico li maturava prima. In Italia sono state usate per motivi commerciali, dato che un vino barricato si può vendere più caro. Ma la piccola botte, gestita in modo sbagliato, fa perdere identità ai nostri vini. Un Chianti deve sapere di Chianti (dal momento che il suo gusto lo possiede da circa trecento anni e lo ha reso famoso nel mondo) e non avere il gusto “internazionale” Un Cabernet del Veneto non può essere uguale ad un Cabernet siciliano. (Il gusto internazionale può andare bene per un vino anonimo, creato dal nulla, con uve anonime e senza tradizione alle spalle. ndr) Dobbiamo tornare, invece, a fare bene i nostri vini, ricchi di espressione e tipicità, senza voler stupire e senza eccedere con il legno, lasciandogli le sue peculiarità ed il suo gusto caratteristico. Dobbiamo scartare certi vini omologati che non si distinguono più fra loro. Non dico che sono uguali, ma bisogna impegnarsi per esaltarne l’identità. Il fenomeno dei vini di gusto internazionale è stato positivo perché ha segnato una svolta verso i vini tipici e tocca a noi rivalutare il nostro ricco patrimonio viticolo, diversificandone i gusti per non perderli. Volendo conferire al Sangiovese un gusto internazionale, se ne perdono le caratteristiche varietali. Una volta aveva senso produrre questi vini, dotati di struttura, che hanno un approccio immediato e facile, perché avvicinano il consumatore al vino attraverso i suoi sapori più semplici e riproducibili. Non capisco più ormai questo gusto internazionale. Se bevo un Chianti voglio un sapere di Chianti e non un gusto internazionale; in questo modo il vino assomiglia ai prodotti cileni, australiani o sudafricani. Il vino deve avere riconoscibilità locale utilizzando tutti gli strumenti a nostra disposizione, tenendo conto di due fattori: l’acquisito e l’innato; se l’acquisizione prevarica l’innato il vino non è più originario. Fin qui Giorgio Grai.
Ma la discussione sulle barriques coinvolge necessariamente i vitigni, a cominciare da merlot, cabernet e chardonnay che sono una costante di questo tipo di vino superconcentrato, poi omologato attraverso la copertura dei sapori con l’invecchiamento in barrique, per renderlo più gradito alla critica. Tutti gli enologi oggi sono concordi nel valorizzare i sapori varietali, cambiando i sapori stereotipati a favore della freschezza e dell’originalità che esalta la tipicità.
A tutto questo si oppone un forte deterrente: per ottenere questi vini di grande tipicità è essenziale partire da materia prima di grandissima qualità che già possiede in nuce la tipicità che si vuole esaltare. Un simile prodotto non ha niente di standardizzato e non basteranno la “grande firma” di un enologo o l’articolo entusiastico di una testata “di tendenza” per renderlo eccezionale.
Necessita di territori altamente vocati, sia nella composizione del suolo che nel clima, lunga ricerca sulle varietà, se non sui cloni, e un’altissima capacità e delicatezza di interventi nella tecnica viticola, nel rispetto e salvando tutto quando la tradizione ci insegna; queste cose non si improvvisano e non si progettano, ma si cercano nell’esistente. In questo contesto è di primaria importanza la consulenza non solo di un enologo, che qualche volta prosegue per la sua strada, senza rispetto per l’opera del viticoltore, convinto che la sua firma basti per garantire la qualità, ma sopratutto di un preparato agronomo specializzato nella viticoltura di qualità, che operi in completo rispetto della materia prima a lui affidata ed in sintonia all’obiettivo enologico che si vuole raggiungere. Si auspica che in futuro le due figure professionali possano essere riunite in una sola specializzazione professionale che darebbe il massimo delle garanzie per il raggiungimento di quell’obiettivo altamente qualitativo che desideriamo.
Gino Jaco
INDICAZIONI SULLA DEGUSTAZIONE
L’assaggio di un vino è scandibile in varie fasi: dapprima esso rileva le sensazioni visive poi olfattive, le tattili infine quelle gustative e le gusto olfattive.
Il miglior risultato è il giusto equilibrio tra le diverse componenti organolettiche. Quando ci si appresta a degustare è utile ricordare alcune regole generali che fanno si che non si commettano errori grossolani.
La temperatura dei vini bianchi deve essere ( 6-10 °C ), i vini rossi ( 16-20°C ), i rosati ( 10-16°C).
Il luogo dove assaggiare un vino deve essere provvisto di una buone luminosità onde poterne valutare l’aspetto
Il bicchiere non va mai colmato ma riempito per circa un terzo della sua capienza, per consentirne l’ossigenazione e un ampio sviluppo dei profumi. Il calice deve essere maneggiato prendendolo per il gambo e mai per il corpo, per evitare l’apporto interferente di odori provenienti dalla mano.
Una volta osservato la limpidezza il colore e l’eventuale effervescenza (elementi primari sulla qualità del vino), portare il bicchiere al naso ed annusare il vino prima a bicchiere fermo, in modo da percepire le sostanze più volatili per avere una prima impressione sui profumi, poi roteando il vino nel bicchiere con movimento ampio e lento. Dopo di che sorseggiare una piccola quantità di vino per cogliere le sensazioni gustative ( il sapore dolce, acido, salato, amaro). Dopo la degustazione, saranno percepiti gli aromi per via retronasale, potendo quindi cogliere sottili sfumature e retrogusto.
Fabio Capuano